Mi fermo un momento per scrivere le 60 righe che Mirella mi ha chiesto. Ritorno da Barcellona P.G. ed è quasi mezzanotte. Stamattina sono partito da Caltagirone alle dieci dopo due ore di telefonate per informarmi, informare e organizzare una manifestazione su quello che sta avvenendo a Siracusa. Ieri sera sul tg2 ho sentito che l’ex ministro Guidi si è autoricoverato al manicomio di SR per tutto il tempo che i portatori di handicap rimarranno ricoverati lì al fine di sollecitare il più urgentemente possibile la soluzione di questo scandalo. Insieme a lui c’era l’onorevole Stefania Prestigiacomo.
Questa notizia data in modo quasi impersonale mi ha commosso. Avrei voluto volare ed essere lì per testimoniare la mia solidarietà. La loro è una testimonianza di grande valore morale e civile nell’indifferenza e nell’inciviltà di chi amministra la sanità pubblica in quest’ isola bellissima in cui vivo.
Sabato scorso ero stato proprio in quel manicomio per denunciare e cercare di organizzare una protesta su questo ricovero che viola le leggi e offende la morale e la dignità degli esseri più deboli non in grado di difendersi. Avevo visitato il padiglione destinato a Comunità terapeutica riabilitativa per gli ammalati mentali e ora invece utilizzato per portatori di handicap.
La solita puzza di manicomio che penetra dentro tutto il corpo impregna i vestiti aleggia dappertutto e non hai modo di poterti difendere, di trovare un angolo pulito, puzza che non avvertivo ormai da anni. Avevo lavorato in quel manicomio ventuno anni fa. Ricordi si affollavano nella mia mente nel vedere di nuovo stanzoni ,ora con meno letti, dodici letti per stanza in questi locali ristrutturati a Comunità, ma sempre tanti. Letti di metallo ospedalieri dove i più gravi stavano a vita con le barre alzate.
La faccia pallida di un bambino di otto anni, capelli neri, volto sfilato, che guardava in giro, guardava noi.
Antonio l’amico che mi accompagnava lo ha accarezzato con dolcezza.
Di fronte un altro ragazzo grave a letto che si masturbava, con un pene grande, alla vista di tutti e più in là un’altro grave che si masturbava anche e c’era una ragazza anche lei a letto che guardava. Era uno spettacolo agghiacciante e le infermiere a lamentarsi di non sapere che fare e che s’erano trovate all’improvviso, impreparate, ad accudire a questi ammalati, diversi dai soliti ammalati a cui erano abituate. Avevo una grande rabbia dentro. Le infermiere mi dicevano “ noi non sappiamo come comportarci, cosa fare con i gravi. Si ci sono otto giovani che sono completamente autonomi e loro in questo momento stanno fuori in giro, ritorneranno più tardi. Non capiamo che ci stanno a fare quì con i gravi.” Fuori un gruppo di giovani volontari suonava la chitarra e cantava insieme a loro. Ma era uno spettacolo molto triste. Tutti questi padiglioni fatiscenti circondati da erbaccia secca erano isolati circondati da alte mura e lontano dal flusso reale della vita di ogni giorno. Davano la sensazione palpabile del ghetto, dell’emarginazione, dell’isolamento e della solitudine.
Una donna assisteva e teneva per le mani un ragazzo con grave ritardo mentale. Questi appena mi ha visto è corso verso di me mi ha preso la mano me la baciava e se la portava sul volto dicendo “carezza, carezza” e io gli accarezzavo la faccia.
L’impressione era di inadeguatezza del personale, di una massa di persone gravi che riempivano due stanzoni e di una crisi generalizzata di operatori e disabili.
Sono entrato nei bagni. Una sfilza di circa venti lavandini l’uno dopo l’altro e di fronte altrettanti gabinetti costituivano il bagno. Ero sconcertato. Non c’era nulla di personale.
Gli spazi erano impersonali e di grandi dimensioni. Era un assurdo ed era contrario ad ogni scientificità che prevede per la riabilitazione psichiatrica spazi personali e ambienti di piccole dimensioni, tipo famiglia.
Pensavo alla Comunità terapeutica riabilitativa sanitaria di Caltagirone il cui progetto lo avevo discusso con l’ingegnere. Numero di posti letto limitato a 20, stanze a due letti con bagno in camera, letti e mobili di tipo familiare, in legno,caldi e colorati, i cui colori li avevo scelto io
insieme a una collega, che davano proprio il senso di una casa. Pensavo alle otto case famiglie nel contesto urbano di Caltagirone, che erano vere e proprie case, alcune in condominio,tutte inserite nel quartiere, dove gli utenti avevano una loro rete sociale e vivevano una loro quotidianetà, da vere e proprie persone: chi faceva la spesa, chi andava a lavorare, chi a scuola, chi partecipava ai gruppi di socializzazione, ecc.
Qui eravamo in pieno manicomio. Ho chiesto a Carmela, psichiatra, di farmi vedere il padiglione dove lavora. Siamo saliti in macchina e ci siamo andati. Il padiglione era circondato da una rete metallica a giro con una porta inferriata aperta ma che si poteva chiudere. Le finestre erano tutte con grosse inferriate di ferro, tipo carcere. La porta d’ingresso era chiusa a chiave e suonando ci ha aperto un infermiere. Era un infermiere che conoscevo, un amico che non vedevo da molti anni, mi ha abbracciato contento e mi ha fatto festa. Siamo entrati e ci ha accompagnati in uno stanzone semibuio dove ventiquattro persone dormivano in letti freddi tutti uguali, del solito metallo ospedaliero, in serie l’uno dopo l’altro disposti su due file di dodici l’una di fronte all’altra.
Ha acceso una fioca luce centrale anche perchè erano andati a letto da poco e fuori c’era ancora la luce del giorno. Un ammalato stava seduto in un angolo, vestito, e con gentilezza ci ha salutati e ci ha dato la mano. Nell’aria c’era una pesante puzza di manicomio. Guardavo i volti amorfi l’uno dopo l’altro che ci guardavano dal fondo dei letti.
Carmela aveva detto che erano quarantasei gli ammalati di quel padiglione. Ho chiesto dove fossero gli altri. Mi ha risposto “nello stanzone sopra “ . Abbiamo salito la scala e siamo entrati in un altro stanzone analogo al primo.
Quando siamo scesi gli infermieri insiemi ad Antonio dicevano che questo reparto era pulito.
Ho risposto che io sentivo la puzza del manicomio e ne ero tutto impregnato.
Antonio mi diceva “ ma allora tu non hai visto la sporcizia di certi manicomi, questo in confronto è paradiso ! “ Mi sembrava che facessero a gara su quale fosse il meno sporco. “Questo è importante – rispondevo – ma la puzza non è il solo elemento.”
Mi sono rivolto ad Antonio e gli ho detto “ tu ci dormiresti in questi stanzoni di ventiquattro letti ? “ – No! – mi ha risposto.
” E’ tutto il sistema sbagliato e violento che non rispetta la dignità e i diritti della persona,anzi la persona non esiste è un numero, – ho detto – e questo si sa da più di quarant’anni. Lo sanno tutti. Nessuno ci dormirebbe in questi posti però ancora si mantengono, anzi li stanno riaprendo i manicomi qui in Sicilia.”
Pensavo che forse era stata la scoperta della violenza del manicomio che mi aveva portato a scegliere di lottare contro la psichiatria istituzionale e di aver realizzato con tante lotte e sacrifici una psichiatria comunitaria, territoriale e le strutture alternative a Caltagirone. Avevo dimostrato ormai da dieci anni, quì in Sicilia, che si può fare a meno del manicomio e che un’organizzazione territoriale può rispondere a tutta la domanda che arriva al servizio anche ai casi più gravi. “Bisogna partire dagli ultimi “- questo era quello che avevo sempre pensato anche perchè non mi ero mai tirato indietro di fronte a casi pesanti col delegarli ai manicomi pubblici o privati, come facevano gli altri colleghi siciliani, ma li avevo affrontati con umanità e professionalità lottando per risolverli e coinvolgendo le istituzioni territoriali facendo scoppiare le contraddizioni anzicchè coprirle. Ora mi trovavo ancora in pieno manicomio con centinaia di persone ghettizzate e violentate nei loro diritti con la scusa della malattia. Sapevo che con un trattamento diverso queste persone sarebbero resuscitate. Ma qui non ero a Caltagirone e non avevo nessun potere di operare i cambiamenti che sarebbero occorsi. La sorte strana dei manicomi siciliani è che chi li dovrebbe chiudere vi lavora dentro da trenta- quarant’anni, si è opposto alla legge 180, non ha nessuna esperienza diversa di lavoro e non sa realmente cosa siano le strutture alternative e il lavoro territoriale, non sa come organizzare il Dipartimento di Salute Mentale per superare la modalità operative manicomiale e molto spesso ha anche interessi economici privatistici, opposti al servizio pubblico. Però, ed è la cosa più importante, non sa riconoscere la puzza del manicomio, tanto né è impregnato e da così lungo tempo che le narici ormai non la sentono!
Siracusa, Giugno 1996