Aspettava il suo turno, indignato, con una grande rabbia dentro. In tasca i pugni erano chiusi, le dita intrecciate e rigide, aveva l’impressione che non sarebbe riuscito più a districarli. Aspettava, aspettava nel Luglio palermitano gocciolante sudore in quella sala, tra la folla, con un forte tremolio dentro e una voglia di prendere a pugni il mondo degli ipocriti, dei doppiafaccisti, dei lenoni che con un aspetto di perbenismo e pulizia esterna, con vestiti lindi e di qualità, profumati, giocavano con l’esistenza degli altri, li condannavano a una morte interiore, a un ergastolo; miseri uomini attenti a interessi personali, egoistici, che costruivano le loro carriere sulla morte di altri. Sono così ciechi che non vedono le montagne di sofferenza tra cui si muovono, da cui traggono i loro guadagni, e per non vedere e per giustificarsi inforcano lenti diagnostiche da cui l’umanità è esclusa.
A questa umanità etichettata si può far di tutto, imprigionarla nei manicomi, chiuderla nei cimiteri *, isolarla dai vivi come portatrice di peste.
Aveva chiesto di essere iscritto tra quelli che volevano intervenire e subito quel collega gli si era avvicinato portandolo in un angolino della sala per parlargli. “ Sai, in sala ci sono molti medici e primari dell’ ospedale psichiatrico, è meglio che non parli male del manicomio e soprattutto non parli della sua chiusura, te li faresti tutti nemici. Lo dico per il tuo bene, perchè ti sono amico, poi all’ospedale psichiatrico sono tutti uniti e compatti, medici, infermieri e altri, per non farlo chiudere e il sindacato più forte, a cui tutti aderiscono, la Cisl, è con loro; anzi, quì a Palermo sette reparti sono stati trasformati in Comunità e aperti a nuovi ricoveri e c’è il progetto di trasformare anche tutti gli altri reparti. Così il manicomio non chiude, rinasce con i nuovi ricoveri, che già da tempo avvengono, e chi era già ricoverato non verrà più dimesso. Vi morirà dentro. Non c’è scampo.
Chi non la pensa come loro ha paura, potrebbero fargli del male e non si scopre.”
Questo gli diceva il collega di nascosto in un angolo della sala.
Un furore gli infuocava il sangue ancora più forte della calura del luglio siciliano, aveva fresche in mente le parole di Lele “mi è arrivata una telefonata con minaccia di morte se non la smetto”; il riferimento, gli aveva detto Lele, era alla battaglia che conducevano per la chiusura dei manicomi pubblici e delle strutture neomanicomiali private, avevano toccato grossi interessi economici; aveva fresche ancora le immagini delle persone ricoverate in quell’ospedale psichiatrico, c’era andato pochi giorni prima, aveva percorso lunghissimi, infiniti, labirintici corridoi, brutti, cadenti, degradati, scrostati e umidi, era salito per una scala e dopo aver suonato il campanello ed essersi presentato avevano aperto la porta e subito l’inferno!
Un tanfo, la solita puzza del manicomio, lo aveva investito, quella puzza di un misto di urina, di feci, di pelle sudata, di corpi che si lavavano di rado, di luoghi sovraffollati e chiusi. Questa puzza che non era una folata ma costituiva tutta l’aria, impregnava ogni cosa, vestiti, corpi, tavoli, mura, non lasciava scampo.
Il sudore e la sporcizia dei corpi glì ricordarono, il tempo in cui lavorava in manicomio, Zeno e Lucia che non si volevano lavare e protestavano quando gli infermieri li portavano alle docce.
“ Dottore ci lasci la sporcizia e il sudore sulla pelle, sono una cosa nostra, ci siamo affezionati e ci stiamo bene insieme. Quì non abbiamo niente, non ci togliete anche quelli ”.
Pensava alla pipì e alla cacca dei suoi figli di due anni, alle lotte che ogni volta doveva fare per metterli nella vasca e lavarli, alla pipì che gli portavano, mentre riposava, sino a letto nel vasino, stretto forte sul petto, come un regalo, alla cacca che a volte facevano sulla sua scrivania e poi chiamandolo ridevano nel mostrargliela, con i volti sprizzanti felicità, come se gli avessero fatto un prezioso regalo, e non volevano che la togliesse e pulisse.
Pensava che Zeno e Lucia avevano ragione, ma come fare?
Tutto partiva da lì.
La privazione di qualsiasi potere, la prigionia, l’ergastolo per quelli che stavano dentro e la disumanità di quelli che stavano fuori e che li avevano dimenticati. Erano regrediti molto e in assenza di qualsiasi potere cercavano di averne qualcuno con l’appropriarsi e trattenere le loro secrezioni. Un modo estremo per esistere e mostrare un “potere” che poi potevano scambiare e contrattare.
E da lì bisognava partire. Dal potere.
Strinse i denti e s’inoltrò dentro il reparto. Uomini nudi a terra, gli infermieri che ridevano e li trattavano senza alcun rispetto ormai disabituati in quel contesto alle regole umane, osservava, mentre veniva accompagnato all’infermieria. Erano scene indegne, raccapriccianti, ma normali per chi era imprigionato lì da anni, sia torturatore che carnefice, prigioniero o custode.
Portarono l’ammalato che doveva essere dimesso grazie al suo interessamento, Carlo, e che avrebbe inserito a Caltagirone in Comunità o in una Casa famiglia.
Carlo era vestito in malo modo, capelli bianchi, occhi azzurri, viso roseo e delicato con zigomi prominenti, il corpo gragile e piccolino, stava lì davanti a lui, silenzioso, come uscito da un quadro di Carlo Levi.
Quando gli disse che c’era la possibilità di uscire dal manicomio, di ritornare al suo paese e che voleva sapere se lui fosse d’accordo, il suo volto s’illuminò. Rispose con un movimento flessorio del capo accompagnato da un sì. Gli fù portata la cartella clinica.
Una cartella ingiallita e lisa dal tempo.
Nella prima pagina interna spiccava la foto del volto di Carlo, foto a colori, recente, e poi la data del ricovero. Era entrato nel 1954 a 17 anni e stava da quarantadue anni in manicomio. La diagnosi era di “Frenastenia di lieve grado” e a causa di un comportamento disturbante era stato ricoverato in manicomio, dove, da quello che leggeva, non aveva mai dimostrato un “comportamento disturbante “, ma si era comportato sempre in modo corretto. Non assumeva farmaci. Scambiò qualche parola con lui, poi lo salutò.
Dopo alcuni giorni Carlo ritornava al suo paese natale, Mineo, felice, dopo quarantadue anni di ricovero ininterrotto e riallacciava il rapporto con i familiari sopravvissuti.
Tante altre immagini gli affollavano la mente, di manicomi vecchi e nuovi, privati e pubblici, ma sempre uguali nel negare e opprimere l’umanità.
E ora stava lì ad aspettare il suo turno, che lo chiamassero, con un furore che gli esplodeva nelle vene. Si conosceva però, sapeva che appena avrebbe preso il microfono, nello sdipanarsi e fluire delle parole, avrebbe riacquistato la calma e a chiare lettere avrebbe espresso il suo sentire e il suo pensare.
Lo chiamarono e salì sul palco dei relatori.
Parlò e parlò di quello che stavano facendo a Caltagirone, delle dimissioni e del reinserimento di persone sequestrate per decenni in manicomio, che da quasi dieci anni avevano dimostrato, in Sicilia, che si può fare psichiatria senza manicomio, che il manicomio si può e si deve chiudere, che avevano costruito l’alternativa, una rete sociale,
un’integrazione tra sociale e sanitario, case situate nel contesto urbano dove utenti del servizio abitavano, venivano aiutati a gestirsi, lavoravano, studiavano, vivevano i loro amori, erano creature come tutte nonostante un disturbo mentale che, curato, non impediva loro di vivere in società e di realizzarsi nella vita. Li incontrava per le strade, cittadini mischiati ad altri cittadini, senza differenza; in casa famiglia decidevano insieme la gestione della casa, cosa mangiare, chi cucinava, chi faceva le pulizie, ecc…, con la supervisione degli operatori sociali della Cooperativa. La gran parte della gente a Caltagirone sconosceva la Case famiglia, perchè la normalità non fa scandalo. Così le persone che abitavano le Case famiglia si mischiavano agli altri cittadini e assieme partecipavano alle feste della città e assieme vivevano la quotidianietà.
A Palermo non c’erano Case famiglia ma il manicomio e le due cose erano mondi diversi, una differenza di anni luce.
Chiuse il suo intervento dicendo: “ Tre cose mi preoccupano nella imminente chiusura dei manicomi:
una riguarda la dimissione delle persone ammalate ricoverate, che è sicuramente la più facile da fare ed è desiderata dagli stessi ammalati;
la seconda, che è più difficile, riguarda la dimissione degli operatori, medici, infermieri e altri, che si sono cronicizzati nel manicomio e che hanno grosse difficoltà a riconvertirsi a una nuova operatività, a trovare un’altra identità dopo decenni di abbrutimento e di de-professionalizzazione.
La terza, forse ancora più difficile, è rappresentata dagli interessi economici che si sono costituiti attorno al manicomio, le aziende che forniscono beni, alimenti, vettovaglie, e l’apparato burocratico amministrativo che vive del manicomio.
Per questo è importante che si programmino i nuovi servizi fuori dal manicomio, nel territorio dei Dipartimenti di Salute Mentale, con la partecipazione, delle famiglie, degli stessi ammalati, delle Istituzioni sociali, delle forze politiche e sindacali oltre che tecniche ma in una nuova e del tutto diversa prospettiva, che è quella del rispetto dell’umanità e dei diritti civili e di cittadinanza delle persone ammalate.”
Alla fine dell’intervento ci fu un lungo applauso e alcuni si alzarono a stringergli la mano. Il convegno subiva una svolta da quel momento e gli altri medici che erano intervenuti prima nel cercare di accreditare l’immagine di un manicomio umano, con i reparti riconvertiti a Comunità, non ebbero più seguito.
Aveva parlato con tutto se stesso e le parole gli erano uscite vive e calde dal cuore, dall’esperienza, dalla conoscenza profonda e dalle sofferenze che aveva dovuto affrontare e vivere in prima persona.
*Nel Calatino una Comunità Terapeutica Assistita di Riabilitazione psichiatrica, privata, convenzionata col Sistema Sanitario Regionale, è collocata all’interno del perimetro cimiteriale.
Caltagirone, 20/08/96